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Libere, disobbedienti, innamorate – In between

“LIBERE, DISOBBEDIENTI, INNAMORATE-IN BETWEEN”.
Giorni nostri a Tel Aviv, due ragazze della comunità arabo-israeliana, libere ed emancipate, vivono la loro vita tra restrizioni tradizionali, sia evidenti che mascherate. Incontrano Noor, una studentessa, araba tradizionalista, col velo e tutto il resto, in procinto di sposarsi con un Salafita, ma…  E’ sbarcato nei nostri lidi (cinematografici) questo strano film (FRA-ISRAE,16), ma premiato in molti festival, grazie ad una benemerita e minoritaria distribuzione indipendente (la Tucker Film). Il titolo originale suona “Bar Bahr”, che ha un significato sostanzialmente simile in arabo e israeliano: “Né qui né altrove”, reso da uno dei fantasiosi titoli italiani (in between) del film; che, oltre a non essere immediatamente comprensibili, non sono né accattivanti, né ne rendono, se non superficialmente, la ricchezza. La regista e anche sceneggiatrice è la palestinese-israeliana Maysaloun Hamoud: cioè una palestinese che vive nello Stato d’Israele; che, senza rinnegare le proprie origini, fa parte di quel 20% di arabi-israeliani, cittadini israeliani di origine araba, che hanno potuto studiare, formarsi e diventare autonomi; o dare forma liberamente alla propria creatività. E’ il caso, ad esempio, della famosa e brava attrice-regista, nata a Nazareth, Hiam Abbas. Tra l’altro, questo 20 % ingloba anche minoranze di arabi di religione cattolica, o maronita e perfino drusi: che vivono in zone dove sono fortemente concentrati. E qui abbiamo uno dei tipici paradossi d’Israele: nel mentre la sua politica nei confronti dei palestinesi fuori dello stato ebraico è oltranzista e aggressiva, fondata sul reciproco non riconoscimento de facto tra lo Stato Ebraico e l’Entità Palestinese, tra la Cisgiordania e la striscia di Gaza; all’interno sono assicurate le condizioni di parità formali di fronte alla legge: cosa che a Gaza, ad esempio, non c’è. E si vede dal fatto che un’intellettuale araba-israeliana, la regista-sceneggiatrice, che tra l’altro è al suo primo film, ha potuto dar vita a quest’operazione artistico-produttiva con una sponda anche fuori d’Israele (con i coproduttori francesi). Ed è della partita un’attrice, molto nota ed apprezzata in tutto il mondo arabo, Mouna Hawa, qui nel ruolo dell’avvocatessa Leila, la più tosta, sensibile a determinata. E’ noto comunque che le minoranze palestinesi, dovunque sono presenti nella loro quasi settantennale diaspora, sono le più intraprendenti, sia culturalmente che professionalmente, e le meno condizionate da massimalismi religiosi. Il film si fonda su questo triplice protagonismo: ognuna delle tre è accompagnata nel suo percorso esistenziale di scoperta/autonomizzazione di sé e di presa d’atto della conflittualità dello stesso col mondo attorno. Ma tale pressa d’atto non si conclude con la sconfitta o il pessimismo; bensì con la dolorosa, ma non passiva accettazione di questo stato di fatto. E con la consapevolezza, altrettanto forte, che questa è la loro via: e lì hanno scelto e sono fermamente intenzionate a procedere a ritrovare e creare se stesse. E questa energia è alimentata da un’intensa, profonda solidarietà: una forte sorellanza che si è instaurata tra loro nel corso degli avvenimenti; e che dà la forza di continuare. L’occhio della regista è, nello stesso tempo, molto attento e sensibile alle numerose sfumature sentimentali, che di volta in volta traspaiono sui volti delle protagoniste nel loro confrontarsi con l’amore, l’amicizia, gli affetti domestici, ecc: in questo aiutata da tre attrici singolarmente dotate; ma dall’altra coglie con intelligente efficacia gli aspetti sociali che circondano, condizionano e trasformano le loro decisioni e destini. Senza enfasi, o sproloqui: lasciando solo “parlare” i comportamenti “effettuali” delle persone in gioco: siano essi amanti, genitori, colleghi di lavoro. In cui, aldilà e oltre le parole, si manifestano le vere verità su ciò che è veramente la società. Il lavoro di sceneggiatura è stato egregio e di finissima fattura. Inoltre si vede che la Hammoud ha fatto i suoi “compitini a casa”: si è studiata con diligenza non solo le sit com americane, ma anche le commedie al femminile (le Chick flick comedies): di lì ha appreso il fresco ritmo dei dialoghi, ha costruito con talento ed originalità la loro mirata efficacia. Che lascia spazio pure all’ironia. Perciò più di un critico ha parlato di “Sex and the City” in salsa arabo-israeliana: ma il confronto serve soprattutto a comprendere l’enorme contrasto tra la realtà affluente occidentale e quella mediorentale, fortemente incistata di conflitti e residui di un passato terribile di oscurantismo che prende nuove e più violente, insidiose, crudeli e serpentesche forme. Da notare che il film è molto costruito in interni. La casa delle ragazze “vive” dei loro spiriti, anche se spesso alcolici, ricchi di fresca e animosa vivacità rispetto a tutti. Il lavoro di montaggio di Nili Feller, che ha già lavorato per molto cinema d’Israele, e Lev Goldser, aiutano a trovare il giusto rapporto tra spazi e movimenti: l’equilibrio che ne nasce è di intenso dinamismo. La casa diventa una parte integrante, attiva e colorata, piena di affettività e piacere di stare insieme, del loro stesso porsi di fronte a noi. Anche perché gli spazi “altri”, compresa la strada, per evidente contrapposizione narrativo-tematica, sono dimensionati in modi statici e oppressivi.  La regista, il suo film, le sue attrici (Sana Jammeleh, la ragazza cristiana che scopre l’amore lesbico e Shaden Kamboura, in origine musulmana tradizionalista e Leila), di tutto ciò sono fortemente consapevoli. Ma non perdono la speranza che le “ragazze del mondo”, con la loro malinconica, sensibile fermezza, così apparentemente fragile e indifesa, sono le uniche che possono salvare il mondo stesso.  Come si vede nella bellissima scena del finale, dove sono tutte e tre da sole, all’aperto, sconfitte ma non dome, coi loro carichi di pensieri: ma forti per il loro stesso stare vicine.  

Francesco Capozzi 

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