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Piccoli crimini coniugali

Un tizio ritorna a casa, con la moglie, in uno stato di sedicente amnesia, presumibilmente causata da una vistosa ferita alla testa. Che gli è successo? Premetto -e ne avverto i lettori- di nutrire nei confronti di questo film (ITA, 16; ma uscito nel 17) un atteggiamento ambivalente. Da una parte c’è il fastidio (yes!) e lo sconcerto per un’opera che è risolutamente e totalmente teatrale, quindi, nel suo immediato impatto spettacolare, caratterizzata non solo dalle sole ed esclusive voci dei due protagonisti, in assenza di musiche, tranne pochissimi interventi; e perfino di rumori di scena; ma anche dalla stessa impostazione dei dialoghi. Essi provengono dal romanzo omonimo, di Eric-Emmanuel Schmitt, pubblicato anche in Italia, che ne ha tratto un testo teatrale. Che, peraltro, ha girato con successo di critica e di pubblico in molti teatri in Italia. Quindi abbiamo la densa concettosià di dialoghi letterari, in più riportati, con pochi adattamenti, sul palcoscenico. Benché ulteriori adattamenti siano stati portati in sede di sceneggiatura, la suspense e la drammatizzazione si muovono e si agitano unicamente sulle tensioni che scaturiscono dall’incalzare dalle parole. Null’altro. Embé, che vi devo dire?, è proprio a questo punto della riflessione critica, che è scattata la considerazione della positività risolutiva con cui il regista Alex Infascelli ha affrontato la difficilissima prova del film. Egli si è confrontato, fin dall’inizio, con un universo narrativo che, fin dalla partenza, sembrava la negazione di ciò che siamo soliti aspettarci da un film: le sue premesse rappresentavano l’anticinematograficità pura: il regno della parola. Che ha fatto Infascelli? Non ha nemmeno tentato la strada di alterare la forte drammaturgia già presente nel testo: egli l’ha accentuata. E l’ha accompagnata sottolineando tutti i passaggi con adeguati movimenti di montaggio interno alla scena e nella sequenza. Per quanto sia girato in progress, e in modi concentrati (le riprese sono durate appena 14 giorni), rispettando l’andamento della pièce, vi sono spostamenti fluidi degli attori non necessariamente in piano-sequenza. Anzi, come egli stesso ha dichiarato, “facendo muovere i protagonisti all’interno di una casa, per individuare dei percorsi che fossero anche metafora del loro manifestarsi e nascondersi”. All’inizio, in quella che è possibile definire la  main titles sequence, cioè la presentazione dei nomi del cast e dei credits, ha fatto, a mio avviso il primo “botto” di qualità. C’è la macchina da presa che passa, in velocità sempre crescente nell’appartamento vuoto, che sarà di lì a poco lo scenario dove si muoveranno i due: ne esplora gli spazi e le curve e la loro labirintica disposizione (di eccellente effetto scenografico). Da dire che questa velocità è suggerita dall’incalzare, in uno dei limitati interventi, della sola musica, che è un drum score, cioè un assolo di più batterie, senza armonie e canto. L’effetto psicologico è profondo e dirompente. Poi “cade” (letteralmente) una pausa di impenetrabile silenzio; infine si apre la porta di casa, e appaiono i due, e inizia il film. In realtà esso è già iniziato: ha orientato la nostra attenzione in modo incisivo, usando modi e stili cinematografici. Ovvero, riprendendo la citazione sopra riportata, è riuscito nel suo scopo: di rendere, utilizzando stilemi filmici, l’appartamento, che è una vera casa dei Parioli di Roma, parte integrante e viva, col suo carico di emotività rimosse o presenti, della conflittualità dei due: la memoria fisica del loro stare insieme. Del resto egli ha curato anche il montaggio e la musica (insieme a David Nerattini), di forte impianto jazz. Ricorda, con funzionale intelligenza, l’uso della batteria nel film Premio Oscar “Birdman” (14). Inoltre Infascelli, che non ha una filmografia molto lunga, ha curato anche la sceneggiatura, insieme alla brava ed esperta Francesca Manieri (a lei, attiva dal 2010, si devono le tese e riuscite scritture di “Veloce come il vento”, 15 di Matteo Rovere e del divertente e iconoclasta “Smetto quando voglio. Masterclass”, 16). Il lavoro che vi hanno fatto è stato nel togliere e semplificare, rispetto ai testi di partenza, ma non impoverire la natura della conflittualità di coppia, portandola ad assunti non stereotipi; in cui emerge l’enorme complessità della sua vita, in cui far vivere il discorso amoroso. La cui portata è anche filosoficamente assai complicata. Dice lo stesso Schmitt: “All’uscita del teatro le coppie reagivano in modi diversi a seconda dell’età: i ventenni mi dicevano “sei crudele”; i quarantenni “che realismo”; i sessantenni “che tenerezza”. Avevano tutti ragione: a 20 anni si vorrebbe che l’amore fosse semplice; a 40 si scopre che è complicato; a 60 sappiamo che è bello proprio perché è complicato”. Quindi il vero e proprio mistero del matrimonio, sia esso civile o di convivenza, sospeso tra alchimia erotica, puro stile auto persecutorio, reciproca cattiveria dal troppo vivere insieme; comunque e sempre, in una cornice di perdurante affetto e tenerezza, e di considerazione intensa e ancora vivente del comune passato; tutto ciò è, contemporaneamente, al centro del film. E si legge “dentro” il vivere sanguinante, esposto come un cuore estratto dal corpo, molto oltre la buona performance, dei due protagonisti: Margherita Buy, finalmente fuori dai cliché della madonnina infilzata; e Sergio Castellitto. Solo due attori di altissimo livello, come questi, potevano sostenere un’interpretazione così concentrata, che procede, con sfumature e “pieni” espressivi, rapidamente, sotto i nostri occhi,  in evoluzione,  senza un solo attimo di tregua. Da sottolineare l’apporto fondamentale della fotografia, il cui direttore è Arnaldo Catinari, uno dei più bravi e dotati del nostro cinema. Le sfumature che sa dare ai grigi dominanti nella casa sono una tavolozza mossa e senza fine. Riesce perfino a dare spessore a quelle sequenze dei ricordi dell’innamoramento, con pochi tocchi di ripresa, utilizzando i corridoi, in una fluida continuità col presente. I colori sono decisi pur essendo incorniciati in ambiti apparentemente limitati. Fa sembrare il chiuso della casa, e le scale a spirale fuori la porta, un universo definito ma dalle infinite vie di fuga interiori, di spazi oscuri: vere dimensioni di insondabili misteri, pur nell’apparente nitore esteriore. 

Francesco Capozzi

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