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Bottega dei prodotti realizzati nei beni confiscati alla mafia apre a Parigi

Ethicando è un negozio di prodotti nati dalle terre confiscate alla mafia e frutto del lavoro delle cooperative carcerarie. Caterina e Ludovica l’hanno aperto a Parigi, dove i francesi stanno scoprendo anche la legislazione italiana sul sequestro dei beni, più avanzata della loro e il lavoro delle cooperative di lavoro in carcere. «Volevamo raccogliere tutte queste storie per mostrare un po’ di orgoglio nazionale»

PARIGI – La pasta arriva dalle terre siciliane confiscate a Cosa Nostra. Il caffè dal carcere di Saluzzo, a Torino. I gioielli dai centri psico-sociali milanesi. La vetrina della boutique, invece, si specchia su Canal Saint-Martin, uno dei luoghi culto di Parigi.

Caterina e Ludovica sono due italiane che da anni vivono nella capitale francese e, dopo aver lavorato nella comunicazione, hanno aperto un negozio di prodotti italiani provenienti da cooperative sociali. L’idea inedita: importare prodotti di qualità fatti nelle terre confiscate alle mafie, nelle carceri e nelle strutture psichiatriche. Così nasce Ethicando. «Il progetto nato più meno un anno fa», spiega Caterina, «ci siamo conosciute al Salone del lusso etico che promuove social e green business». Dopo quell’incontro, le due donne hanno avuto l’idea innovativa del concept store che potesse riunire questi prodotti. E Caterina e Ludovica il sogno di creare boutique in altre città lo hanno già «Volevamo far passare un messaggio forte», continua Caterina «dire che un altro modello è possibile e, perché no, che il social non solo un prodotto tristone, un po’ brutto ma invece può essere vero stile, vero gusto, vero design però con una mission sociale importante».

«Volevamo raccogliere tutte queste storie per mostrare un po’ di orgoglio nazionale», interviene Ludovica «avevamo voglia di riscatto». E infatti il modello tutto italiano della confisca e del riutilizzo dei beni delle mafie è esemplare. «Il concetto di confisca qui in Francia diverso, perché è una confisca penale e non amministrativa come in Italia. E a livello di cifre siamo distantissimi: qui vengono confiscati beni per circa 300 milioni di euro all’anno, che vanno principalmente alla polizia e al ministero della Giustizia. Mentre in Italia i beni confiscati hanno un valore di sei miliardi e a volte vengono riassegnati a cooperative e ad enti locali, ma anche ai privati che hanno validi progetti di recupero».

Il sistema italiano potrebbe quindi far scuola e infatti ci sono già associazioni che vogliono importare il modello in Francia. Fra queste, Flare, che si occupa di anti-mafia e lotta per la legalità: «La confisca preventiva», spiega Fabrice Rizzoli di Flare «permette di mettere sotto sequestro i patrimoni senza aspettare la condanna penale del proprietario. Questa una procedura che la Corte europea dei diritti dell’uomo ha dichiarato conforme alla presunzione d’innocenza. E infatti la giustizia permette al proprietario di provare in ogni momento che il bene confiscato stato comprato con fondi legali. Al contrario, nella confisca penale, la giustizia deve provare che il bene frutto di un crimine commesso da una persona. E questo difficile da dimostrare al fine di garantire la presunzione di innocenza». Per Rizzoli questa una delle ragioni che provocano la sproporzione tra valore dei beni confiscati in Francia e in Italia. «E non parliamo nemmeno di riutilizzo sociale», aggiunge. Certo, la distanza nei numeri tra Italia e Francia dipende in parte da contesti sociali ed economici molto diversi. Ma l’idea che il crimine organizzato possa risarcire la società civile è nuova in Francia.

«Con Ethicando», racconta Caterina «in collaborazione alle associazioni anti-mafia che lavorano a Parigi, Flare e Libera, abbiamo organizzato molti incontri per sensibilizzare il pubblico francese, per far conoscere il modello italiano e eventualmente esportarlo. Ci siamo chiesti cosa si potrebbe fare se si adattasse la legge per la confisca alla giurisprudenza francese». In occasione di questi incontri e dibattiti parigini, Caterina e Ludovica hanno montato il loro stand con i prodotti di Libera Terra. E a fine serata lo hanno sempre dovuto smontare. Ora invece, hanno il concept store che si specchia su Canal Saint-Martin.

«Il terrore», dice Caterina «è di perderci nel quotidiano per mandare avanti il negozio e avere meno tempo per organizzare gli incontri anti-mafia, contattare le persone che portano avanti il dibattito, perché per noi fondamentale che Ethicando sia un posto che promuovi il dibattito sulla legalità. Tutto questo retrobottega un po’ complicato. E temiamo anche di perdere la ricchezza che c’è dietro alle storie dei prodotti, perché volerle raccontare tutte si rischia di perdersi».

Infatti, ognuno di questi prodotti, riuniti in sessantacinque metri quadrati, ha dietro un racconto: quello delle donne tessitrici e sarte calabre della cooperativa Canciari, per esempio, che fanno moda anti-‘ndrangheta nella Locride. C’è la cooperativa Ferro e fuoco nata nel carcere di Fossano, che produce mobili con materiali di recupero e che, per portare a Parigi l’arredamento del negozio di Caterina e Ludovica (che può essere acquistato anche su listino), ha fatto 600 chilometri senza chiedere un centesimo. C’è la storia del dolcetto d’Alba appena prodotto da detenuti che hanno la vigna dentro al carcere. «In realtà», interviene Ludovica «anche per il lavoro carcerario abbiamo scoperto con nostra sorpresa che l’Italia molto più avanti. Qui si fanno molti atelier ma non esistono le cooperative che insegnano ai detenuti un mestiere, che vendono i prodotti realizzati. È un concetto che ancora non passato e anche su questo cercheremo di fare degli incontri, degli incroci di esperienze, tra le cooperative italiane e le associazioni che sono interessate a riproporre il modello».

Ecco quindi che anche in questo caso l’Italia insegna: dopo il carcere, ecco una possibilità di riscatto perché talvolta, chi ha lavorato da detenuto continua a lavorare nella cooperativa dopo essere tornato in libertà. Nel negozio, ci sono i gioielli fatti da una detenuta africana e la provenienza dell’artigiana rivelata dalle materie prime che ricordano l’Africa.. E ancora, c’è la spilla con un omino che ha la testa che scoppia perché chi l’ha fatto, ospite di un centro di assistenza psichiatrica, ha raccontato che quel giorno aveva un mal di testa pazzesco.

«Le borse vengono da materiali di riciclo». È Ludovica a raccontarlo, «ovvero banner pubblicitari che i comuni danno alle cooperative carcerarie e quindi alcune sono molto belle perché hanno delle figure interessanti pensate da pubblicitari. Il bidone per la spazzatura commercializzato da una società ma il designer, che abbiamo conosciuto al Salone del lusso etico, per questioni militanti ha voluto che fosse assemblato da questi giovani in difficoltà di Brescia. E in genere il prodotto viene venduto in negozi di lusso, i ragazzi si fermano davanti alle vetrine e sono fieri di dire: questo l’ho fatto io. E ora sono molto orgogliosi che i loro prodotti siano venduti a Parigi».

Caterina e Ludovica, che tengono porte aperte ogni giorno dalle 10 di mattina alle 10 di sera, e straripano di idee: parlano entusiaste delle storie che stanno dietro ai prodotti e progettano le degustazioni, le presentazioni di libri, incontri con le cooperative, proiezioni di film e documentari, atelier per i più piccoli il mercoledì, il giorno in cui in bambini francesi non vanno a scuola, sui temi sulla legalità e sul lavoro delle cooperative. Il loro timore che lo spirito del progetto possa essere tradito, sembra già essere andato via. 

Chiara Zappalà fonte LINKIESTA

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