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The Place

Al tavolino di un bar siede un misterioso personaggio che ascolta e afferma di riuscire a realizzare le richieste di chiunque vi si siede di fronte: consulta una strana e corposa agenda e chiede in cambio che a sua volta faccia qualcosa. Tratto dalla Tv Series “The booth at the end”, creata da Christopher Kubasik per Netfix (10-12), il film (ITA, 17) è diretto da Paolo Genovese; è anche da lui sceneggiato insieme a Isabella Aguilar. Il regista, dopo aver fatto coppia con Luca Miniero, col quale creò “Incantesimo napoletano” (01), il film che lo lanciò, ha realizzato il riuscito e intelligente “Perfetti sconosciuti” (16). Col quale mostrò che il cinema italiano può uscire dal vicolo cieco di “o commedia o morte”: attraverso una elaborata sceneggiatura originale e non scontata, trasformò una commedia corale in una amara riflessione non moralista sull’ipocrisia del vivere metropolitano. Evidentemente ci ha preso gusto. Nel senso di volere continuare a sfidare il conclamato “gradimento” prevalentemente e miopemente attribuito da produttori ed esercenti ai pubblici del cinema, per cui si devono fare solo film “da ride”; e ha realizzato questo film non facilmente incasellabile. Tra l’altro organizzato in modalità simil-teatrali, perché non si esce mai da quel bar: anzi dall’angolo dove è seduto l’esauditore, ma con contropartite, dei desideri. Un attento, contemporaneamente glaciale e partecipativo Valerio Mastandrea; bravissimo: alla sua migliore interpretazione. Eppure, nonostante (ma forse proprio per queste) le premesse, il film piace, conquista la nostra attenzione, in un crescendo di drammaticità. Poiché si vede come questi destini, nella loro apparente casualità, non fanno che intrecciarsi, convergendo, ognuno per la sua particolare direzione, su situazioni di incontro/conflitto. Ma allora: chi è lo sconosciuto al bar? E’ un angelo del destino? un demone? Perché consulta sempre la sua agendona, da cui trae le richieste, talvolta banali, ma più spesso crudeli, con cui ripagare il beneficio/miracolo postulato? E perché vuole sapere i dettagli, che trascrive fedelmente sul librone e si accorge subito se uno mente? E perché brucia i foglietti volanti?  Sono tutta una serie di domande cui non si dà risposta. Possiamo ipotizzare che l’idea di questo dispensatore/incrociatore di destini appartiene alla cultura ebraica: in particolare a quell’idea della Khabala per cui la parola scritta ha in sé la funzione di destino annunciato. Ma, attenzione, non è un destino scritto: ma solo previsto e desiderato. La realtà è che la scelta soggettiva, la responsabilità individuale, quella che la tradizione cattolica chiama “libero arbitrio”, può mutare tale annuncio: può dargli addirittura una direzione del tutto diversa e inattesa. Come capita col personaggio di Rocco Papaleo. D’altra parte, nemmeno è pensabile che le nostre scelte individuali siano senza conseguenze o che non abbiano alcun prezzo da pagare, in termini di sofferenze apportate, quando a tutti i costi ci si vuole sottrarre dal subire le nostre. E’ un meccanismo molto sottile, che può prendere diverse direzioni: una volta determinate la nostra responsabilità e scelte, gli esiti non sono nemmeno più progammabili. Il dispensatore ascolta con assoluta calma le varie determinazioni: ma mette sempre ognuno di fronte al proprio volere, ribadendo con freddezza che lui si limita a mediare il rigido contrappasso tra ciò che desidera, e il prezzo di sofferenze da mettere in campo, proprie o altrui, per ottenerlo. Sono meccanismi psicologici complessi che ci vengono approfonditi e sviluppati con cristallina chiarezza, in delle successive e intense ondate di confluenza narrativa, spesso tempestosa. Sono persone che chiariscono le proprie ragioni esistenziali soprattutto a sé stessi, e a noi: non c’è nulla di scontato; e tutto ciò avviene in quell’angusto spazio, davanti a quell’unico testimone. La sceneggiatura è di una linearità perfetta e conchiusa: geniale. Ma la sua resa cinematografica è un miracolo. Stupisce come pur in quell’unico ambiente ci sia vivacità di ripresa: ma c’è un accorto e attentissimo lavoro di montaggio. Per cui le riprese seguono il ritmo e l’emotività suggerita ai personaggi dal loro denudarsi davanti a Mastandrea. Gli scambi, spesso veloci, di visuale e di angolazione; così anche di rumori, come la pioggia, e di persone che vi transitano e del poco di esterno che vi preme, sono tutte “linee” che attraversano il dire degli otto personaggi. E sono trasformate tutte in funzionali, raffinate e calibrate scelte narrative. Del resto la montatrice è Consuelo Catucci, che già altre volte ha “sfidato” e sconvolto al cinema le leggi della teatralità: suo è stato l’apporto artistico per “7 minuti”(16), che addirittura era una commedia; così anche a lei si deve il senso del ritmo, pur in un unico ambiente domestico, del bellissimo “Perfetti sconosciuti”. La direzione della fotografia è di Fabrizio Lucci: un veterano dell’illuminazione. La sua omogeneità cromatica è la cornice ideale, sospesa tra luce ed ombra, in cui i personaggi possano “entrare” in sé stessi, mentre apparentemente parlano coll’uomo di fronte. Gli attori sono tutti eccellenti (A. Rorhwacher; M. Giallini; V. Puccini; G. Lazzarini; S. Muccino; S. D’Amico; A. Borghi; V. Marchioni): il meglio delle nuove e precedenti generazioni. La più ambigua, misteriosa e complessa, perfino più dello stesso uomo-al-tavolo, è il personaggio di Sabrina Ferilli. La cui funzione è, forse, di angelo/annunciatore; ma che soprattutto pone di fronte a sé stesso il muto traghettatore di destini: alle sue sofferenze inespresse a ai suoi silenziosi drammi. 

 

Francesco Capozzi

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