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Whiplash: un film al passo coi tempi

Comincio col dirvi che Whiplash non è un film. È vero, è stato diretto e sceneggiato da Damien Chazelle, candidato agli Oscar, distribuito nelle sale, ma non è un film. Whiplash è un’opera saggistica, un trattato su tempo e tempismo, ritmo e dinamica, attimi e occasioni. Whiplash è un orologio costantemente e angosciosamente ticchettante che scandisce con un affannoso susseguirsi di istanti una catena di minuscoli eventi dalle conseguenze irreversibili. Whiplash è un’autentica rivelazione.

Non credo sia un caso se il film viene introdotto, accompagnato da un ritmico crescendo di batteria, da una carrellata che ci porta lentamente all’interno della stanza in cui suona il protagonista Andrew Neiman. Un’inquadratura che è in realtà una soggettiva e che segue la lenta passeggiata di Terence Fletcher all’interno della sala prove. Un succedersi di passi riflesso musicalmente nell’incalzante aumento della velocità, che si traduce nella successione degli istanti che compongono il movimento della camera e nella capacità del batterista di rimanere fedele al tempo sempre più difficile da seguire.

Come ormai avrete capito, infatti, il tema su cui tutta la pellicola si basa è proprio il tempo e quello di questo film è smanioso, non lascia spazio a esitazioni e rallentamenti, né a imperfezioni. Ce lo dimostra la sceneggiatura (ma su questa non farò anticipazioni), come però anche il montaggio, che traspone con efficace linguaggio tecnico il concetto di frenesia: gli stacchi sono veloci, in alcuni casi angoscianti, e scandiscono perfettamente ogni singolo gesto. L’unica dissolvenza utilizzata da Tom Cross – che per il suo impeccabile lavoro si è guadagnato la candidatura agli Oscar nella categoria Miglior montaggio – coincide con un salto temporale che questo espediente riesce efficacemente a evocare.

Se c’è qualcosa che il secondo, incredibile lavoro di Damien Chazelle ci insegna è proprio che il tempo non è autonomo. Il suo inesorabile scorrere non porta improvvise conquiste e restare seduti sulla riva del fiume aspettando di vedere il cadavere del proprio nemico passare non è sempre la migliore soluzione. Bisogna agire e questo richiede sistematicità, precisione strategica, rigore e un’immensa dose di sacrificio. Molte volte vedremo le mani del batterista sanguinare e il rosso vivido brillare rispetto all’acida fotografia verde-bluastra (o all’occorrenza giallognola). Un tono caldissimo, rabbioso, che sembra compromettere la monocromaticità generalmente mantenuta nelle singole scene. È una rinuncia, nel rigore della fotografia, che rispecchia l’abnegazione del protagonista per il riconoscimento accademico, un obiettivo che va ottenuto a ogni costo, pur di generare conflitti, pur di autodistruggersi.

Inutile dire quanto la musica sia importante, onnipresente in tutti i 107 minuti. Si citano grandi percussionisti, si parla di ritmo e soprattutto si suona. Il film diventa un lunghissimo, angosciante concerto jazz. Non che la colonna sonora abbia atmosfere tanto affannose, anzi: l’ansia è generata dalla paura di un errore, di un’imperfezione nell’impeccabile e complesso ritmo descritto dagli spartiti. Poco conta che si suoni un requiem o Il ballo del qua qua, nulla può sottrarre il pubblico e gli stessi personaggi dalla paura se il direttore d’orchestra è dotato del più infallibile e maniacale orecchio mai visto sul grande schermo (se non sulla faccia della Terra).

Whiplash è un film severo, impeccabile, in cui un critico all’altezza del personaggio di Terence Fletcher non sarebbe in grado di trovare difetti di forma, ma anche un valido prodotto commerciale: non è lento e riesce a non far mai calare l’attenzione dal primo all’ultimo istante, rendendosi apprezzabile da un ampio pubblico. La regia mai banale sorprende a ogni minimo stacco, l’occhio di Chazelle si focalizza su dettagli mozzafiato, regalando allo spettatore una visione unica ed estasiante della musica, che non è solo melodia, eleganza, armonia, ma anche una lotta con il tempo, sempre più veloce e inafferrabile.

Lucia Liberti

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