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Il colore nascosto delle cose

Roma. Emma è un’affascinante osteopata non vedente, che incontra Teo, un pubblicitario tombeur de femmes seriale  e bon vivant.

Benché diversissimi, sono reciprocamente attratti. Il regista e sceneggiatore di questo film (ITA-SVIZZ, 17) è Silvio Soldini, autore tra i più raffinati e dotati del nostro cinema. Con la commedia “Pane e tulipani” (00) ha conosciuto anche un importante, e meritato, successo di pubblico. Si era cimentato con i non vedenti in un “film di realtà” (documentario), “Per altri occhi” (13), che traeva spunto dall’incontro con un osteopata milanese non vedente, che gli era stato consigliato. Ma dal bel film del 13 a lui e alla sua cosceneggiatrice abituale Doriana Leondeff, è venuta l’idea di quello attuale. Ma l’intelligenza degli autori, cui si deve aggiungere lo sceneggiatore Davide Lantieri, è di avere stabilito un taglio narrativo non “chiagnazzaro”: ovvero tale da far uscire una considerazione, anche se di tipo indiretto e delicato, pietistica sulla condizione di vita dell’universo dei non vedenti. Il film inizia col buio. Totale, assoluto. Prodotto in un ambiente in cui sono posti momentaneamente dei vedenti. Questa è la dimensione abituale in cui vivono: la loro normalità. Ma il film si muove da questa connotazione: la sviluppa e ci riflette con grande sensibilità; ma anche attraverso un approfondimento delle tematiche connesse. Emma, la protagonista, ha deciso di vivere, non di lasciarsi vivere: pone la sua persona, nella sua interezza, a contatto colla realtà. Perciò sviluppa altri aspetti della sua presenza fisica, gli altri sensi, che lei affina ed educa ad essere in un qualche modo vicarianti della mancanza della vista. Ma è un’acquisizione della volontà soggettiva, non un dono calato: è lei che si è messa nella condizione di volerlo fare. Molto indicativo è il rapporto educativo con la sua giovane allieva Nadia (un’incisiva Laura Adriani), che, diciassettenne, non accetta il trauma della perdita della vista. Anche lì si tratta di un processo. Emma le regala una matita per le labbra: la ragazzina la getta via, irata. Ma è proprio questo il punto: ri-impadronirsi e vivere la propria femminilità anche in queste nuove condizioni, al meglio possibile; tenendo conto, beninteso, delle difficoltà e criticità. Teo, al contrario, è uno che vive immerso nella visione delle cose: è un pubblicitario. Che però non guarda da nessuna parte. Vede ma non va oltre la superficie. L’incontro con Emma lo spinge ad osservare le sfumature meno apparenti; quelle che restano nascoste, perché non “si vuole” vederle. Con sapiente gestione, gli autori non è che hanno imbastito un processo di redenzione hollywoodiana: tutto resta abbastanza in sospeso. Ma hanno colto l’intima poeticità e profonda umanità e credibilità dei loro percorsi. Soldini, con gli altri sceneggiatori, ha messo in evidenza la complessità dei processi messi in campo; e di come questi hanno mille sfumature. Non solo dal punto di vista di lei: ma anche di lui. Teo, l’attore Adriano Giannini, si sente portato a svelare, senza nemmeno lui sapere il perché, per la prima volta, le ragioni del suo essere in rotta con la famiglia. E lo fa con Emma, che lo ascolta veramente intenzionata a capire: cercando di “vedere”, da cieca, nel cuore dell’altro; ciò avviene senza alcun moralismo e senza giudicare. E’ una bella pagina di cinema narrato. Peraltro resa possibile dalla bravura dei due. La Golino, che ha già lavorato con Soldini, mostra maturità e crescita culturale e professionale. Il suo porsi in questa performance così fisica e complicata, è, nello stesso tempo, solido e rarefatto: solido, perché è una combattente che si confronta seriamente col mondo “terribile e vasto” (A. Gramsci); rarefatto, perché vi è sempre sottesa una infinita sensibilità e una fragilità che lei ben avverte, anche se cerca di accompagnarla nella trasformazione di un qualcosa di positivo e utile a sé e agli altri. Gestire con equilibrio queste diverse percezioni all’interno della stessa narrazione, è la cifra autorale del film e ne mette in evidenza la riuscita: tenendo conto che talvolta riesce a virare sapientemente anche verso la commedia. L’architettura grafica del film è perfetta. Il montaggio (di Carlotta Cristiani, che ha già lavorato col regista, e Giorgio Garini) accompagna lo sviluppo narrativo con vivace e lineare chiarezza. La fotografia, di Matteo Cocco, rivela il talento di questo singolare operatore, attivo anche in Germania, nel commisurare il senso del vedere a quello dell’esservi parte integrante nelle sue dimensioni di spazio e colore. Accurato e riuscito è l’apporto della sperimentata scenografa Marta Maffucci: senza invadere di oggetti gli ambienti, ne ha implementato la comprensibilità e funzione.  

 

Ciccio Capozzi

 

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