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La Speranza nel grembo d’un vulcano

Quando mi sveglio la mattina, di solito, esco sul terrazzo di casa, che si affaccia sul Vesuvio e sul campanile di Piazza Pugliano, per osservare il panorama… subito sotto il mio sguardo si parano alcuni dei quartieri vecchi di Ercolano, forse i più dimenticati, che si ergono massicci a nascondere i vicoli dove la vita si svolge ogni giorno, come sipari che incorniciano una scena ricca di colori e suoni… poi sollevo la testa di quei pochi gradi necessari affinché i miei occhi si posino sul verde sconfinato del minaccioso monte che abbraccia il nostro paese e sulla sua sagoma che, come mi raccontò mio padre quando da bambino mi mostrò per la prima volta quel cratere tanto famoso, sembra tanto quella d’una donna che porta in grembo un bambino.

A volte, viaggiando con la fantasia, immagino le strade che la notte spesso percorro in macchina insieme ai miei amici, con la musica e i nostri sogni a farci da scorta o, se meglio credete, da compagnia… in questi momenti, sia che siano vissuti o pensati, sono felice… “Felice” in latino si scrive “Felix”, attributo che venne conferito, all’epoca, alla nostra terra, la Campania, da Plinio il Vecchio, il quale, come è tramandato, morì nel 79 d.C. durante l’eruzione del Vesuvio che, da allora, si meritò l’epiteto “Terribilis”. In questi rari momenti di gioia mi è facile pensare che la mia terra sia ancora un luogo felice e, devo ammetterlo, a volte sono orgoglioso di essere nato e cresciuto qui, ad Ercolano. Eppure, quando mi fermo a riflettere su questi luoghi in cui ho speso e, probabilmente, ancora spenderò la mia vita, credo non ci sia aggettivo che meno le si addica…
La mia terra, la nostra terra, una volta meraviglia dell’Italia tutta, stella del Mediterraneo che brillava d’una luce abbagliante, sembra oggi aver perso il suo antico splendore ed essersi spenta, succube di anni e anni di malgoverno e mala amministrazione, stuprata dalle faide interne di clan malavitosi, sfiancata dalle sue stesse genti e dalla loro indifferenza, dagli omertosi che hanno preferito voltare lo sguardo, fingere di non aver ascoltato, dissimulare la loro ignoranza mentre queste lande e questo paese marcivano lentamente sotto i loro occhi… Un posto dimenticato dai più, in particolare da chi avrebbe dovuto difenderlo ed emanciparlo, elevarlo a patrimonio della nostra nazione, medaglia al petto della bella Italia; un luogo screditato dai media e dal giornalismo, dipinto agli occhi del mondo come un buco senza fondo da cui nulla di buono può uscire se non furfanti, dormienti e scansafatiche… E noi, figli del Vesuvio, risentiamo di tutto ciò, lasciando che il nostro sangue si faccia amaro ed anni ed anni di odio e maldicenze nei nostri confronti si sedimentino sul fondo del nostro cuore, quasi iniziando a credere che tutto quello che si racconta su di noi sia vero, che nelle catene di nucleotidi che compongono il nostro DNA ci sia qualche gene che ci renda effettivamente un branco di incapaci e che nulla potremo fare per cambiare la natura delle cose, che anche con tutto l’impegno e il lavoro il fatum ci sopraffarrà condannandoci all’oblio… A questo punto è alla Campania che sembra più calzato quel “Terribilis”, a questa Campania che sembra aver smarrito la memoria degli antichi fasti, e alle sue genti, che sembrano aver perso quella marcia che avevano in più rispetto agli altri, quell’allegria che li contraddistingueva dal resto del mondo, quella voglia di far festa anche nella tragedia, di ballare e cantare anche quando il morale è così basso che al massimo si potrebbe piangere accasciati in un angolo… Sembra proprio come disse una volta il mio professore di filosofia: “Ragazzi, vi hanno sottratto la speranza… non riuscirete ad andare avanti, così…”. Forse è davvero così, forse abbiamo perso la cosa più preziosa che avevamo: l’infinita voglia di andare avanti, di pensare al futuro in funzione di un miglioramento del nostro presente, con la grande fiducia che tutto il dolore che ci affliggeva sarebbe presto svanito… Forse ci siamo rassegnati… Forse l’ho fatto anch’io, che ho soli diciassette anni, otto mesi e quindici giorni, una vita davanti ma nessuna prospettiva rosea, come del resto, molti giovani della mia età, per quanto brillanti possano essere. Più penso e più mi sento intrappolato, incarcerato dalla realtà del mio paese, che è affondato nelle sabbie dell’immobilismo, soffocato dal peso di un futuro che non sento mio. Con questa malinconia che mi schiaccia il cuore sarebbe davvero facile per me lasciarmi assorbire dal baratro della tristezza e lì rimanere, senza mai più da esso districarmi…

Però poi c’è il nostro meraviglioso monte, che qualcuno chiamò un tempo “sterminator” che, pur incutendo tanto timore, a me dà tanta speranza, perché è il nostro simbolo, ciò che ci tiene uniti, ciò che ci identifica. Spesso, arrivato sulla cima del cratere dopo una tonificante camminata, ho guardato verso il golfo spostando man mano i miei occhi verso Sorrento… Sotto di me non vedevo città distinte e spente, ma un unico paese ridente che, seppur martoriato, continuava imperterrito la lotta contro i suoi demoni e le sue ombre, contro il suo passato, il suo presente e il futuro che sembra già essergli stato assegnato. Quando la sera mi fermavo su una delle curve che portano a quota mille ad ammirare le luci di Napoli, rimanevo estasiato nel vedere le strade della città attraversate da miriadi di macchine che scorrevano tutte nella stessa direzione, governate da una strana armonia impercettibile altrove, come arterie di un corpo umano in cui scorre sangue lucente dopo che il cuore ha dato una vigorosa pompata. Lo stesso accadeva quando sugli scogli del porto di Torre del Greco o sul molo della Favorita, a notte fonda, fissavo sovrappensiero il mare e, all’altro capo del Golfo, a salutarmi, c’era il bagliore della bella Partenope, che rischiarava l’oscurità riflettendosi sulle acque. Ebbene, quando penso al Vesuvio, a ciò che esso rappresenta per noi, alla nostra storia, al nostro golfo, alla nostra città, al nostro paese… inizio a credere anch’io fortemente che una speranza ci sia, che non ci è stata tolta, rubata, sottratta… forse è semplicemente sepolta nelle nostre anime, o nel profondo del cratere di questa montagna che domina le nostre contrade, nel suo cuore caldo, fatto di roccia fusa e gas ribollenti a temperature elevatissime; inizio a credere che nelle nostre vene scorrano lava e magma, forse con minime percentuali di zolfo, e non sangue e corpuscoli. Questa speranza, poi, non la avverto come un’utopia irrealizzabile, una chimera che serve ad ingannare i creduloni e gli stolti, no… L’utopia di questa speranza che è in noi occultata non è nient’altro, come scriveva Ernst Bloch, che ciò che sarà prima o poi, presto o tardi, quando ci sveglieremo e decideremo di lottare all’unisono per i nostri ideali e per la nostra terra sottomessa e massacrata, per i nostri figli, per le generazioni che verranno, per quello che c’è di buono e giusto. Con questa speranza nel petto, a ribollire e agitarsi come quel magma che tanto ci fa paura, io sento che non solo la nostra Campania è “felix”, ma che lo è anche il nostro Vesuvio. E poco importa, poi, che un giorno o l’altro questo malauguratamente esploderà spazzando molti di noi sotto la sua furia… Il fango potrà ricoprire queste terre come molte volte, del resto, ha già fatto; quelle nubi ardenti potranno di nuovo ridurre in cenere tutto ciò che si para loro innanzi e questo meraviglioso cielo azzurro potrà essere ricoperto ancora da una coltre di cenere e lapilli prima che essa si precipiti sulle nostra case e sui nostri luoghi… Ci sarà sempre la speranza che tutto riviva, che tutto ritorni come prima, se non meglio di prima, perché, in fondo, dai diamanti non nasce niente, ma nel deserto possono nascere di nuovo i fiori, fiori gialli e odorosi, che si chiaman ginestre, a folti cespi, a popolare ante homini queste lande, che, dopo un’eruzione, saranno desolate, a simboleggiare che la vita, alla fine, trionfa sulla morte e che il terreno è sempre fertile per una nuova speranza, anche dopo una tragedia o una catastrofe. Proprio come le ginestre, allora, noi dobbiamo lasciare che queste utopie in noi sepolte, da bei diamanti che sono, fioriscano rigogliose, rendendo migliori noi stessi e il nostro paese, lasciando vedere al mondo che quello che di noi e del nostro Vesuvio si dice non è in fondo vero, che sono solo falsità, che qui abbiamo tanta voglia di fare, tanta voglia di “esplodere” (in senso positivo, s’intende) e di cambiare una volta per tutta il destino che è a noi stato obbligatoriamente assegnato, senza che lo potessimo realmente scegliere, senza che ci venisse chiesta alcuna opinione.

“Dipinte in queste rive / Son dell’umana gente / Le magnifiche sorti e progressive.”, scriveva il Leopardi parlando dei nostri fantastici luoghi… io non posso che concordare con lui. Sarà pur vero che gli uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce, ma le tenebre in cui ci hanno indotto e in cui noi ci siamo appisolati vacillano al bagliore di ciò che arde nel profondo delle nostre anime, come roghi di rovi e sterpi che mai smettono di bruciare. Allora quando torno su quelle curve a osservare le luci della nostra città e delle vicine, sogno che esse provengano da ognugno di noi, che brillino delle nostre speranze, delle parole che mai abbiamo detto e che ancora teniamo segregate nei recessi delle nostre menti, chiuse a chiave senza possibilità di uscita… e sogno che questa bella donna che giace sopita nella nostra montagna abbia davvero nel grembo un bambino, un bambino che si chiama “Speranza”… e sogno che saremo noi con un po’ di maieutica a farlo nascere e portarlo dal freddo oblio all’accogliente calore delle fiamme che bruciano lente nei nostri cuori.

Antonio Sorrentino IV A L.S. I.I.S. Adriano Tilgher

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