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Il Tempo e l’Impegno

Inizia un nuovo anno. Naturalmente mi riferisco all’Anno Liturgico che inizia con l’Avvento e al tempo della Chiesa, profondamente diverso dal tempo del mercante quantificato in termini di denaro e di profitto.

Avvento, tempo d’attesa del Dio incarnato che cerca l’uomo e lo incontra nella condivisione della sua natura, della sua povertà e della sua fragilità.

Un’attesa che però non può essere passiva e inoperosa. 

L’Avvento di Dio esige un Esodo dell’uomo. Il tempo della venuta di Dio richiede un tempo dell’uscita dell’uomo da se stesso, dal proprio guscio d’egoismo per incontrare il volto di Dio in quello del prossimo, soprattutto nel volto deturpato di un’umanità afflitta da vecchie e nuove povertà.

L’Avvento c’invita a riscoprire l’umiltà dell’attesa, di fronte al Dio che viene, mentre l’Esodo ci sprona a rispondere all’amore del Signore con il coraggio dell’impegno a favore del prossimo.

I nostri modelli sociali sono troppo spesso legati al mito dell’efficienza utilitaristica ad ogni costo, ai ritmi veloci che non lasciano spazi per l’attesa e per l’ascolto, all’ossessione del successo e all’ansia da prestazione, alla rincorsa del tempo che ci sfugge dalle mani. Sembra di vivere su una giostra che gira freneticamente senza possibilità di scendere per riappropriarsi di se stessi e della possibilità di incontrare l’Altro e gli altri.

Nello stesso tempo, la ricerca di un “centro di gravità permanente” troppe volte si traduce nell’elevare le opinioni a certezze indiscutibili cadendo nell’idolatria del “secondo me” e rendendo assoluto ciò che è relativo. Facilmente si cade nella tentazione del potere, nella presunzione del sapere e nell’arroganza dell’uno e dell’altro.

La riscoperta dell’umiltà, che non è servilismo o falsa modestia (travestimento del peggior orgoglio), è il coraggio di prendere pienamente coscienza di sé e della propria finitudine.

Umiltà deriva da humus, terra, che è alla nostra origine (Adam, fatto di terra) e alla nostra fine (ritorneremo alla terra). Tuttavia, proprio il senso del limite ci fa cogliere la scintilla dell’irriducibilità e dell’oltre che c’è nell’uomo. L’esperienza del confine, della nostra appartenenza alla terra, ci spinge a travalicare le barriere e ad avventurarci nella fede oltre la terra.

L’avvento di Dio nella storia degli uomini rompe le barriere del limite e c’invita al coraggio dell’esodo, all’avventura della ricerca della Verità, non per possederla, ma per farsene possedere e condividere la bella notizia dell’Amore che si dona affinché ognuno possa farsi dono per l’altro.

In tale visione, il limite non è tanto ostacolo insormontabile, tabù, divieto, barriera inviolabile, handicap, etc., ma risorsa e regola. Etimologicamente il limite è limes, linea che fa chiarezza, tracciato dirimente e, proprio per questo, implica consapevolezza delle proprie possibilità ma, contemporaneamente, è invito ad aguzzare lo sguardo, un proiettarsi oltre la frontiera, incentivo alla ricerca e allo spingersi oltre; disponibilità ad assumersi la propria finitezza e caducità e, tuttavia, invito a cogliere l’ampiezza dell’orizzonte della scelta e il senso di responsabilità che ne consegue. In fondo, Dio stesso ha creato e redento il cosmo, la storia e l’uomo scegliendo, per amore, di abitare il limite e aprendoci attraverso di esso gli orizzonti dell’infinito e dell’eterno. Pertanto, la scelta per amore di abitare il limite non è sinonimo di fallimento, chiusura o impotenza, ma diventa evento creativo e salvifico.

Il cristiano, ad imitazione del suo Signore è chiamato ad essere segno in un tempo senza segni, ad incarnarsi nella storia, ad assumerla e viverla fino in fondo, lottando ed impegnandosi nella costruzione del Regno di giustizia, pace e amore nell’oggi e nel cuore del mondo.

Oggi, più che nel passato, c’è bisogno di testimoni dell’Amore, in particolare verso gli ultimi (Mt. 25), coscienti che sull’amore e il servizio fraterno si gioca il nostro avvenire eterno, dal momento che «alla sera della vita saremo giudicati sull’amore» (S.Giovanni della Croce). La testimonianza dell’Amore richiede un’attenzione al reale, al presente e un impegno attivo nella trasformazione del mondo e della storia contro ogni tentazione di smobilitazione e di evasione alienante. 

Nella tensione continua tra avvento ed esodo, tra fede e speranza, che chiedono d’essere inverate nell’amore, tra già e non ancora, il presente è relativizzato dalla coscienza d’essere viatores, pellegrini del provvisorio, nomadi nel deserto del dubbio e della crisi, verso la nostra dimora definitiva (1 Cor. 7,29-31), ma al tempo stesso, il presente è valorizzato al massimo, poiché è l’hic et nunc, il qui ed ora, in cui si gioca il nostro avvenire eterno e in cui il Regno deve cominciare a manifestarsi.

Infine, verrà il giorno in cui Dio sarà «tutto in tutti» (1 Cor. 15-28) e «tergerà ogni lacrima; non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno, perché le cose di prima sono passate. Ecco io faccio nuove tutte le cose» (Ap. 21,4-5) e tutti saremo trasformati dall’Amore.

Mi permetto, perciò, di concludere lasciando   aperta la riflessione con la Parola ultima e tuttavia sospesa, che è fede e invocazione:

Maranathà: il Signore viene, vieni Signore (1Cor.16,22; Ap. 22,20).

 

Franco Accardo

 

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